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Elsa

La storia racconta di una famiglia numerosa, sei fra fratelli e sorelle, un papà bidello e una madre in grado di mettere in riga anche il più indisciplinato degli eserciti. Classe 1931, il ché significa che gli anni della guerra la videro appena adolescente vivere momenti di terrore e di stupore – come quando bombardarono Reggio Emilia e il cielo della notte divenne chiaro persino ad Arceto, la piccola frazione nella quale abitava.Oppure come quando arrivarono gli Alleati (“I Liberatori”), che con i loro sorrisi, i loro saluti e i loro cioccolatini divennero come degli dei portatori di gioia e spensieratezza.

Un sogno premonitore le mostra quello che sarebbe stata la sua professione: l’ostetrica. Nonostante la scarsa scolarizzazione e le difficoltà economiche, Elsa decise che quella era la sua strada, e percorrendo in autobus la via Emilia quasi tutti i giorni, riuscì a completare gli studi presso il Policlinico Sant’Agostino di Modena.

Diplomata a diciotto anni, dovette attendere fino alla maggiore età, cioè fino ai ventuno, per potere lavorare in ospedale a Scandiano (RE), dal 1952 al 1988. All’epoca, era l’unica ostetrica del paese, reperibile 7 giorni su 7, tutti i giorni della settimana, per tutto l’anno.Con la sua Vespa andava a visitare le pazienti a domicilio, anche di notte, anche sotto la pioggia e la neve. Ma nonostante le avversità e gli episodi negativi, l’amore per il lavoro, per il seguire la gravidanza dall’inizio alla nascita, battesimo compreso, la resero protagonista principale della vita di moltissime famiglie della città di Scandiano – Elsa fece nascere circa quattromila bambini in trentasei anni di carriera.

“L’unico rammarico che ho, è che non sono riuscita ad assistere mia figlia. Avevo tutto pronto: guanti, fonendoscopio… Ma lei no. Ha voluto fare tutto di nascosto”. Quella figlia sono io. Ma questa è tutta un’altra storia.

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Norma

Norma l’ambiziosa. Norma la bella. Norma la sognatrice.

Nata nel 1927 ad Arceto (RE), una piccola frazione, la “sorella bella” di Elsa, coltivò fin dalla giovane età due desideri: diventare parrucchiera e trasferirsi in una grande città.
“Ma non solo la parrucchiera: avrei voluto anche fare la cantante, l’attrice, mi piaceva la moda. Io sognavo.. non c’era niente di male, no?”

Arrivò la guerra a cambiare le abitudini di una Norma adolescente che, nonostante tutto, non smise mai di sognare anche quando di notte, Pippo la teneva sveglia con il suo assordante ronzare. Le campane del castello le facevano sobbalzare il cuore, e il forte picchiare alla porta dei tedeschi che nel buio della sera, ubriachi, volevano entrare in casa la faceva trasalire. Ma paura, mai.
Nemmeno i “matti” del manicomio di Reggio Emilia, sfollati nella scuola di Arceto durante la guerra, la intimorivano. “Mamma mia, ricordo ancora un poveretto che scavava con la testa per terra per trovare l’oro….La scuola era piena di matti, e di dottori e infermieri. E noi andavamo sempre a vedere cosa facevano. Ci si divertiva con poco”

Dopo la guerra, la vita riprese a scorrere leggera, accompagnata da canti e da balli, quelli della domenica pomeriggio, sotto il tendone dove l’orchestra suonava e si ballava seguite dagli occhi attenti delle anziane madri. E il sogno di Norma di diventare parrucchiera divenne realtà quando a ventiquattro anni fece un corto praticantato in un piccolo salone in Piazza del Cristo a Reggio Emilia. Da lì a poco Norma aprì la sua piccola attività nel soggiorno di casa, dove impiegava ore e ore per la sua famosa “permanente americana”.
Quanto le piaceva Reggio Emilia, la città, con i suoi teatri, i negozi della via Emilia e i commenti dei passanti al suo incedere sinuoso: “Ricordo ancora, avevo un vestito di maglia bluette…eh ero proprio una bella ragazza!”

Venne il matrimonio e nel 1961 l’opportunità di trasferirsi da Arceto a Milano. Quella sì che era una grande città “Il mio sogno si stava avverando, ero felicissima e spaventata allo stesso tempo”. Seguirono anni di vita intensa, da cittadina che Norma racconta con entusiasmo e gioia.

“Ci sono cose che se potessi tornare indietro, non rifarei. All’epoca ero stupida, adesso no, sono molto più furba! Ma tutto sommato, sono felice di quello che ho fatto anche se ho ancora un desiderio: quello di andare ad assistere ad un’opera lirica alla Scala…” “E cosa indosseresti?” chiedo io, incuriosita. Norma risponde con una sonora risata…

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Giberta

Girolama, da tutti conosciuta come Giberta, nacque nel 1925 sulle colline scandianesi, e dai lavori svolti in campagna per aiutare la famiglia, la sua mente arriva veloce alla Guerra, quella guerra che pare abbia lasciato trincee vuote nella sua pelle e fantasmi nei suoi occhi.

“Che brutte giornate che abbiamo passato, ma forse oggi le vedi ancora più brutte, al momento dovevi pensare a sopravvivere ”

Una sera, mentre era nell’atrio del cinema del paese, un amico, Roberto, le disse “Buonasera signorina, che bella sera che è questa sera. Se domani sera fosse una bella sera come questa sera sarebbe una bella sera come questa sera”. Dopo due giorni venne fucilato. “Non me lo dimenticherò mai”

E poi i bombardamenti di Pippo, la fucilazione di massa sul ponte di Fellegara..” I miei amici erano lì per terra.. mi venne detto di andare, di non fermarmi e di non guardare indietro…” , la prigionia degli uomini di famiglia ai Servi a Reggio Emilia “Andavamo a trovali in bicicletta.. mamma mia”

Un tempo era tutta un’altra cosa. Le persone si aiutavano a vicenda, si incontravano nei cortili e parlavano, giocavano, ballavano e cantavano. Finita la guerra, Giberta si sposò e passò dalla vita in campagna a quella di paese, aiutando il marito nella rivendita di latte, un lavoro pesante, molto pesante: “Il manubrio della bicicletta una volta mi si è rotto in due! Prova ad immaginare!!”

Ma non c’era solamente il lavoro: il sabato e la domenica erano i giorni di festa e si andava a Reggio Emilia, sulla via Emilia, dove c’erano i signori a passeggio, i caffè e tutto era bellissimo. “Non come adesso…”

La vita di Giberta seguì l’evoluzione delle abitudini della piccola comunità nella quale viveva: dal rivendere latte passò alla rivendita di bombole di kerosene. Per ricominciare da capo nel 1978, dopo l’avvento del metano, aprendo un negozio di elettrodomestici: “Quanti viaggi premio, quante belle cose viste insieme a mio marito”. Gli anni passarono.. e in seguito venne il noleggio di videocassette, la vendita di televisori e di telefonini

Giberta ancora oggi è in negozio; quello del nipote, però, dove i dvd hanno sostituito le videocassette. Seduta su una poltroncina, con il suo sorriso accogliente e le sue chiacchiere pacate, le mani sul fedele bastone e gli occhi umidi, felice di essere ancora parte di un mondo che va avanti, nonostante tutto.

 

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Maria

Sulla via Emilia ha trascorso la sua vita. Ha novantaquattro anni e i ricordi del passato riaffiorano vivi alla mente. La ascolto. Attenta. E mi perdo nel suo racconto.

“Si stava bene, in campagna. Noi eravamo fortunati, non ci mancava niente.” Abitava a Pieve, in una casa da contadini lungo la via Emilia, vicino al ponte sulla Modolena.
La strada non era asfaltata allora, non passavano macchine, solo la Topolino del medico condotto. Attorno al ponte ha ruotato la sua vita “da ragazza”.  Il ponte era il luogo d’incontro. “Nelle sere d’estate ci sdraiavamo sulla strada e guardavamo il cielo.” “E poi?” “Niente”. Niente, cantavano. “cantavamo così bene…” E dai borghi vicini altri giovani rispondevano con i loro cori. Nel buio, nel silenzio.

E sul ponte, una domenica (era il 1939) arrivò un giovane che con un gruppo di amici, in moto, stava andando a Cella, perché avevano saputo che là c’erano delle ragazze. Si fermò lì, sul ponte, dove ce n’erano altre, una in particolare… “E poi?” “Niente”. Niente, è tornato tutti i giorni.

La guerra cambiò le cose. Il ponte divenne bersaglio delle bombe e di notte si stava barricati in casa, o nel rifugio che era stato scavato nell’argine della Modolena. I soldati tedeschi bussavano alla porta, cercavano delle biciclette per scappare. “Ma la mia non l’hanno trovata, l’avevo nascosta sotto il fieno”.

Via Emilia Santo Stefano, centro città. “Da sposata” non si poteva più cantare. “Ma perché?” “Perché non stava bene”.  Suo marito faceva il meccanico, vendeva e riparava moto e biciclette. Lei era sempre al negozio, sempre là, ad aiutare. Lei gestiva anche il deposito delle biciclette che gli impiegati degli uffici di Piazza Gioberti portavano tutti i giorni.  Era il suo piccolo mondo. “Un sabato c’era in città un comizio di Nilde Iotti. Mio marito non voleva aprire perché temeva dei disordini. Io sono andata lo stesso. C’era un mare di biciclette.” E poi?” “Niente”. Niente, in un solo giorno aveva preso cinquemila lire. “Ci ho comprato la biancheria per la casa”.

La casa è sempre la stessa. Lei si guarda intorno e ricomincia a raccontare…