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Raffaella

Raffaella, classe 1933.

L’infanzia in una casa modesta alla periferia di Reggio Emilia, casa abbandonata durante la guerra perché troppo vicina alle zone dei bombardamenti. Il primo sfollamento fu a Gavasseto, divisa dai genitori e dal fratello e il successivo a Sabbione, sempre accompagnata dalla fedele bicicletta, compagna di quei viaggi obbligati nella provincia reggiana.

A quindici anni inizia la sua avventura nello sport, spronata dal padre Giannetto, il grande Giannetto. “Mio padre era fantastico: le persone venivano in negozio, sai avevamo il negozio in via Emilia dove vendevamo attrezzature per lo sport e articoli sanitari. E nel retrobottega il papà aveva il suo lettino dove curava le persone. Ecco, poteva accadere che un cliente arrivasse in negozio per acquistare una ginocchiera perché aveva male ad un ginocchio, ed il papà lo invitasse nel retrobottega, lo visitasse e uscisse guarito, senza acquistare né spendere nulla”.Il padre Giannetto portava atleti conosciuti a Reggio Emilia, prima con la boxe e poi con il ciclismo, e il fermento che avvolgeva l’attività di famiglia contribuiva ad alimentare l’energia che avvolgeva il centro storico della città.

Raffaella ricorda il suo andare di persona sui campi da sci a studiare cosa i sciatori indossavano “Perché così potevo ordinare al rappresentante quello che era necessario”. Oppure si presentava nelle palestre dei licei della città per mostrare le tute e le scarpe da ginnastica, “E le mamme brontolavano…sai, dopo la guerra non c’erano tanti soldi”

Gli anni stupendi del negozio in Via Emilia, una Via Emilia  splendente di vita, dove tutti i negozianti si conoscevano  e si aiutavano a vicenda. “Potevi lasciare la porta aperta e andare a fare una commissione, il vicino era sempre pronto ad aiutarmi, anche quando era ora di chiudere e non riuscivo a spostare la pesante vetrina. Erano altri tempi.. bei tempi”

C’era la gara delle vetrine “E una la vinsi io: misi un paio di sci e una racchetta da Tennis”, e c’erano anche le urla di Raffaella che chiamava il fratello Chiarino ad aiutarla in negozio. Ma Chiarino era in Cadorina a giocare a flipper…”Secondo me si ricordano tutti le mie urla…Chiariiinoooo”

“Abbiano passato anni stupendi, lavorando con amore. In negozio ci stavo bene, tutti mi volevano bene e ancora adesso, quando incontro vecchi clienti, io vedo in loro il sorriso. Io ho voluto bene a tutti, anche a quelli che mi facevano tribolare”

E mentre parla, Raffaella ancora sorride..

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Elsa

La storia racconta di una famiglia numerosa, sei fra fratelli e sorelle, un papà bidello e una madre in grado di mettere in riga anche il più indisciplinato degli eserciti. Classe 1931, il ché significa che gli anni della guerra la videro appena adolescente vivere momenti di terrore e di stupore – come quando bombardarono Reggio Emilia e il cielo della notte divenne chiaro persino ad Arceto, la piccola frazione nella quale abitava.Oppure come quando arrivarono gli Alleati (“I Liberatori”), che con i loro sorrisi, i loro saluti e i loro cioccolatini divennero come degli dei portatori di gioia e spensieratezza.

Un sogno premonitore le mostra quello che sarebbe stata la sua professione: l’ostetrica. Nonostante la scarsa scolarizzazione e le difficoltà economiche, Elsa decise che quella era la sua strada, e percorrendo in autobus la via Emilia quasi tutti i giorni, riuscì a completare gli studi presso il Policlinico Sant’Agostino di Modena.

Diplomata a diciotto anni, dovette attendere fino alla maggiore età, cioè fino ai ventuno, per potere lavorare in ospedale a Scandiano (RE), dal 1952 al 1988. All’epoca, era l’unica ostetrica del paese, reperibile 7 giorni su 7, tutti i giorni della settimana, per tutto l’anno.Con la sua Vespa andava a visitare le pazienti a domicilio, anche di notte, anche sotto la pioggia e la neve. Ma nonostante le avversità e gli episodi negativi, l’amore per il lavoro, per il seguire la gravidanza dall’inizio alla nascita, battesimo compreso, la resero protagonista principale della vita di moltissime famiglie della città di Scandiano – Elsa fece nascere circa quattromila bambini in trentasei anni di carriera.

“L’unico rammarico che ho, è che non sono riuscita ad assistere mia figlia. Avevo tutto pronto: guanti, fonendoscopio… Ma lei no. Ha voluto fare tutto di nascosto”. Quella figlia sono io. Ma questa è tutta un’altra storia.

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Norma

Norma l’ambiziosa. Norma la bella. Norma la sognatrice.

Nata nel 1927 ad Arceto (RE), una piccola frazione, la “sorella bella” di Elsa, coltivò fin dalla giovane età due desideri: diventare parrucchiera e trasferirsi in una grande città.
“Ma non solo la parrucchiera: avrei voluto anche fare la cantante, l’attrice, mi piaceva la moda. Io sognavo.. non c’era niente di male, no?”

Arrivò la guerra a cambiare le abitudini di una Norma adolescente che, nonostante tutto, non smise mai di sognare anche quando di notte, Pippo la teneva sveglia con il suo assordante ronzare. Le campane del castello le facevano sobbalzare il cuore, e il forte picchiare alla porta dei tedeschi che nel buio della sera, ubriachi, volevano entrare in casa la faceva trasalire. Ma paura, mai.
Nemmeno i “matti” del manicomio di Reggio Emilia, sfollati nella scuola di Arceto durante la guerra, la intimorivano. “Mamma mia, ricordo ancora un poveretto che scavava con la testa per terra per trovare l’oro….La scuola era piena di matti, e di dottori e infermieri. E noi andavamo sempre a vedere cosa facevano. Ci si divertiva con poco”

Dopo la guerra, la vita riprese a scorrere leggera, accompagnata da canti e da balli, quelli della domenica pomeriggio, sotto il tendone dove l’orchestra suonava e si ballava seguite dagli occhi attenti delle anziane madri. E il sogno di Norma di diventare parrucchiera divenne realtà quando a ventiquattro anni fece un corto praticantato in un piccolo salone in Piazza del Cristo a Reggio Emilia. Da lì a poco Norma aprì la sua piccola attività nel soggiorno di casa, dove impiegava ore e ore per la sua famosa “permanente americana”.
Quanto le piaceva Reggio Emilia, la città, con i suoi teatri, i negozi della via Emilia e i commenti dei passanti al suo incedere sinuoso: “Ricordo ancora, avevo un vestito di maglia bluette…eh ero proprio una bella ragazza!”

Venne il matrimonio e nel 1961 l’opportunità di trasferirsi da Arceto a Milano. Quella sì che era una grande città “Il mio sogno si stava avverando, ero felicissima e spaventata allo stesso tempo”. Seguirono anni di vita intensa, da cittadina che Norma racconta con entusiasmo e gioia.

“Ci sono cose che se potessi tornare indietro, non rifarei. All’epoca ero stupida, adesso no, sono molto più furba! Ma tutto sommato, sono felice di quello che ho fatto anche se ho ancora un desiderio: quello di andare ad assistere ad un’opera lirica alla Scala…” “E cosa indosseresti?” chiedo io, incuriosita. Norma risponde con una sonora risata…

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Nedda

Era il 1926, figlia unica, coccolata e cresciuta all’ombra di un frutteto a Sesso, piccola comunità a sei chilometri da Reggio Emilia. Un’infanzia dorata che accompagnò lo sbocciare della sua bellezza e i sussulti provocati dalla sua tempra ribelle.

La madre cercava di contenere la curiosità di questa ragazza esuberante, che amava i complimenti, la buona conversazione. Anche con i soldati tedeschi: “Quando si è giovani si è incoscienti”. Avendo studiato tedesco a scuola, Nedda si ritrovò casualmente a tradurre dal tedesco all’italiano le lettere di un soldato che aveva la fidanzata a Napoli.
“Dopo mi scrisse una cartolina per ringraziarmi, io lo facevo volentieri, mi ricordo questo omone e mia madre nella stanza accanto che mi controllava”

La guerra finì con una festa, e la vita ricominciò a scorrere lieta: l’incontro con il marito, il matrimonio, la nuova casa a Scandiano (RE) e l’attività di maestra supplente. “Io ero una maestra, sono una maestra” sottolinea Nedda, ricordando le sue avventure nella scuola a Telarolo, sulle colline reggiane “Che per me, che sono della bassa reggiana, era già alta montagna. E pensa che andavo da Scandiano a Telarolo in motorino!”.

Nonostante i mille impegni e responsabilità, Nedda non dimenticò mai Reggio, città con la quale mantenne sempre un legame speciale: “Ero conosciuta da tutti i negozianti della via Emilia, mi piacevano gli abiti e i gioielli ma soprattutto mi piaceva chiacchierare.. Reggio era bellissima e mi piaceva portare anche le mie figlie in giro per negozi”

Nedda maestra “ Ma per poco, perché mio marito non voleva”, Nedda moglie, Nedda madre e contabile nell’attività di rivendita di acque minerali del marito. Ma anche cuoca “Venivano gli ispettori e io organizzavo tutto, facevo dei grandi pranzi, allora ero brava a cucinare.. ”

Allunga la mano curata e segnata dal tempo verso un pacchetto di sigarette sul tavolo, e con classe innata ne accende una, e i suoi occhi si perdono nel fumo grigio che l’avvolge come una nuvola..

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Giberta

Girolama, da tutti conosciuta come Giberta, nacque nel 1925 sulle colline scandianesi, e dai lavori svolti in campagna per aiutare la famiglia, la sua mente arriva veloce alla Guerra, quella guerra che pare abbia lasciato trincee vuote nella sua pelle e fantasmi nei suoi occhi.

“Che brutte giornate che abbiamo passato, ma forse oggi le vedi ancora più brutte, al momento dovevi pensare a sopravvivere ”

Una sera, mentre era nell’atrio del cinema del paese, un amico, Roberto, le disse “Buonasera signorina, che bella sera che è questa sera. Se domani sera fosse una bella sera come questa sera sarebbe una bella sera come questa sera”. Dopo due giorni venne fucilato. “Non me lo dimenticherò mai”

E poi i bombardamenti di Pippo, la fucilazione di massa sul ponte di Fellegara..” I miei amici erano lì per terra.. mi venne detto di andare, di non fermarmi e di non guardare indietro…” , la prigionia degli uomini di famiglia ai Servi a Reggio Emilia “Andavamo a trovali in bicicletta.. mamma mia”

Un tempo era tutta un’altra cosa. Le persone si aiutavano a vicenda, si incontravano nei cortili e parlavano, giocavano, ballavano e cantavano. Finita la guerra, Giberta si sposò e passò dalla vita in campagna a quella di paese, aiutando il marito nella rivendita di latte, un lavoro pesante, molto pesante: “Il manubrio della bicicletta una volta mi si è rotto in due! Prova ad immaginare!!”

Ma non c’era solamente il lavoro: il sabato e la domenica erano i giorni di festa e si andava a Reggio Emilia, sulla via Emilia, dove c’erano i signori a passeggio, i caffè e tutto era bellissimo. “Non come adesso…”

La vita di Giberta seguì l’evoluzione delle abitudini della piccola comunità nella quale viveva: dal rivendere latte passò alla rivendita di bombole di kerosene. Per ricominciare da capo nel 1978, dopo l’avvento del metano, aprendo un negozio di elettrodomestici: “Quanti viaggi premio, quante belle cose viste insieme a mio marito”. Gli anni passarono.. e in seguito venne il noleggio di videocassette, la vendita di televisori e di telefonini

Giberta ancora oggi è in negozio; quello del nipote, però, dove i dvd hanno sostituito le videocassette. Seduta su una poltroncina, con il suo sorriso accogliente e le sue chiacchiere pacate, le mani sul fedele bastone e gli occhi umidi, felice di essere ancora parte di un mondo che va avanti, nonostante tutto.

 

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Pina

“Nel mio cuore c’è sempre stato il desiderio di fare la maestra. L’ho voluto con tutte le mie forze, e così è stato”

Scandiano (RE), 1924: Giuseppina, conosciuta da tutti come Pina, è la sesta di nove fratelli,  una tradizionale famiglia dell’epoca dove il lavoro di tutti – figli compresi- era nel podere di famiglia alle porte della cittadina pedecollinare. Ma Pina avvertì presto che il suo destino non era lì, nella terra, e lottò con tutte le sue forze per fare sì che il suo sogno, quello di fare la maestra, si avverasse. Un privilegio, quello della scolarizzazione delle figlie, riservato solamente alle famiglie benestanti.

Anche i suoi modi e il suo aspetto erano segnale evidente di un destino precluso al lavoro nei campi: Pina e il suo colletto inamidato alla perfezione, la sua delicatezza nei gesti e la dedizione allo studio, tanto che la madre le ripeteva che forse sarebbe stato meglio se fosse nata in casa del “padrone”.

L’ancor più cruenta guerra arrivò a Scandiano quando lei aveva appena terminato le magistrali. L’esame per il diploma venne rimandato a causa dei continui bombardamenti, le scuole di stato vennero chiuse ma Pina riuscì ugualmente ad insegnare nella scuola delle suore e a casa delle famiglie benestanti del paese.
La guerra continuava con il suo strascico di vittime e di dolore, assumendo anche le vesti di guerra civile. Un dolore che Pina non vuole ricordare, tranne che per i corpi straziati che vide quando un fratello, portando il pane a cuocere al forno del paese, fu colpito in prossimità del polmone da una scheggia di una bomba.

Nel 1948 venne indetto il primo concorso per gli insegnanti di scuola elementare e Pina lo vinse con successo: finalmente era ufficialmente una maestra. La bicicletta la accompagnò prima ad Arceto, e poi in Lambretta per dieci anni a San Ruffino, sulle colline scandianesi. Infine, Pina ottenne il posto di ruolo nella scuola elementare di Scandiano.

In quegli anni, Pina divenne madre di tre figlie,  in un’epoca dove non esistevano leggi a tutela delle lavoratrici madri e tutto era ancora più complicato.

“Mi piaceva tantissimo il mio lavoro, anche se comportava una responsabilità enorme , quella di fare o tanto bene o tanto male a questi bambini, che prendevo piccoli e poi li seguivo ogni giorno, sabato compreso, fino in quinta. Quando sono andata in pensione, a sessanta anni, mi sono tolta un peso enorme dalle spalle, perché per me la scuola era dedizione totale, ero un insegnante scrupolosa e forse a quell’età non ero più in grado di sostenere il fardello di quei pensieri”

“Sono felice perché sento di avere speso la mia vita al meglio, non l’ho buttata via: il lavoro in famiglia, la scuola, la mia attività come catechista. Quello che potevo dare alla mia famiglia e alla comunità l’ho dato e ne sono orgogliosa”

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Maria

Sulla via Emilia ha trascorso la sua vita. Ha novantaquattro anni e i ricordi del passato riaffiorano vivi alla mente. La ascolto. Attenta. E mi perdo nel suo racconto.

“Si stava bene, in campagna. Noi eravamo fortunati, non ci mancava niente.” Abitava a Pieve, in una casa da contadini lungo la via Emilia, vicino al ponte sulla Modolena.
La strada non era asfaltata allora, non passavano macchine, solo la Topolino del medico condotto. Attorno al ponte ha ruotato la sua vita “da ragazza”.  Il ponte era il luogo d’incontro. “Nelle sere d’estate ci sdraiavamo sulla strada e guardavamo il cielo.” “E poi?” “Niente”. Niente, cantavano. “cantavamo così bene…” E dai borghi vicini altri giovani rispondevano con i loro cori. Nel buio, nel silenzio.

E sul ponte, una domenica (era il 1939) arrivò un giovane che con un gruppo di amici, in moto, stava andando a Cella, perché avevano saputo che là c’erano delle ragazze. Si fermò lì, sul ponte, dove ce n’erano altre, una in particolare… “E poi?” “Niente”. Niente, è tornato tutti i giorni.

La guerra cambiò le cose. Il ponte divenne bersaglio delle bombe e di notte si stava barricati in casa, o nel rifugio che era stato scavato nell’argine della Modolena. I soldati tedeschi bussavano alla porta, cercavano delle biciclette per scappare. “Ma la mia non l’hanno trovata, l’avevo nascosta sotto il fieno”.

Via Emilia Santo Stefano, centro città. “Da sposata” non si poteva più cantare. “Ma perché?” “Perché non stava bene”.  Suo marito faceva il meccanico, vendeva e riparava moto e biciclette. Lei era sempre al negozio, sempre là, ad aiutare. Lei gestiva anche il deposito delle biciclette che gli impiegati degli uffici di Piazza Gioberti portavano tutti i giorni.  Era il suo piccolo mondo. “Un sabato c’era in città un comizio di Nilde Iotti. Mio marito non voleva aprire perché temeva dei disordini. Io sono andata lo stesso. C’era un mare di biciclette.” E poi?” “Niente”. Niente, in un solo giorno aveva preso cinquemila lire. “Ci ho comprato la biancheria per la casa”.

La casa è sempre la stessa. Lei si guarda intorno e ricomincia a raccontare…

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Elsina

Un desiderio rimasto tale: quello di diventare maestra.

Un’infanzia dorata, profumata di campagna e di vita spensierata, nella quale la guerra fece un’incursione violenta, con la deportazione del fratello ai Servi a Reggio Emilia.

E poi: Pippo, le bombe, di cui una sfiorata per caso mentre era in centro a Reggio Emilia a fare commissioni.

Questi furono i primi venticinque anni di Elsa, classe 1920, che dal grande podere di famiglia a Borzano di Reggio Emilia si trasferì per amore e per le vicissitudini della vita, nella vicina Scandiano, nell’affollata e chiacchierona via Garibaldi. Erano tempi in cui Elsa, Elsina per gli amici, sposa e madre, occupava le sue giornate cucendo colli di pelo per la vicina di casa, in un quartiere dove i vicini erano anche amici, sostegni nel momento del bisogno, confidenti e compagni di giochi – quelli di carte, i suoi preferiti.

Fu all’incirca nel 1968 quando per puro caso, Elsina iniziò ad aiutare i gestori del Corallo, il locale da ballo del paese. Dapprima come donna delle pulizie e successivamente aiuto barista.

Ve la immaginate Elsina, con i suoi occhi azzurri e il suo sorriso, a servire da bere in quello che per tutti gli anni ’80 e ’90 fu il locale rock più conosciuto del nord d’Italia? La cosa la divertiva, un po’ stancante forse, ma a lei piaceva stare in mezzo a tutti quei giovani e a quella confusione, a quella vita che accese tutte le sue notti per più di cinquanta anni.

Perché Elsina continuò il suo lavoro “rock’n roll” fino a che le sue forze e la sua consapevolezza glielo permisero, una ultra ottantenne dietro al bancone del bar del Corallo ad asciugare i bicchieri, felice di assorbire tutta quella energia.

Andai a trovarla nel novembre del 2011, sapevo che non era proprio in forma ma accettò ugualmente di posare per me..…ed ogni tanto si allontanava…

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Marta

1920: quasi cento anni fa, Marta nacque in una Scandiano lenta e generosa che con le sue braccia accolse una bambina che di lì a poco avrebbe perso il padre in guerra.

Allevata con amore, Marta abbracciò la vita con la calma e la serenità che l’accompagnarono per anni su una lunga e a volte tortuosa strada. All’epoca, distanze che per noi ora sembrano irrisorie erano invece sinonimo di avventura, e il treno che collegava Scandiano a Reggio Emilia era il destriero che conduceva verso un mondo dove tutto era bellissimo: la gita in città, i caffè e le persone ben vestite che passeggiavano su una via Emilia scintillante di vita.

Reggio Emilia divenne anche il luogo in cui Marta accrebbe la sua curiosità e sete di conoscenza, frequentando il collegio delle Ausiliarie, luogo che rafforzò ulteriormente la sua fede cristiana, altra devota compagna di viaggio e sostegno durante i periodi più difficili.

E poi: l’Amore, un incontro che non è dato a me raccontare, e che ha segnato il cuore e gli occhi. E poi: i Figli, avuti da giovanissima durante una guerra che tracciò pesanti croci non solo le carte geografiche ma anche nei ricordi. Lo sfollamento a Montebabbio di Scandiano, il rantolìo assordante di Pippo, le visite dei tedeschi in cerca “degli uomini”.. ricordi questi ancora vivi nella figlia maggiore.

Marta fu per molti, tantissimi abitanti di Scandiano ,“la Maestra Vacchi”, colei che per più di cinquanta anni accolse i bambini presso la scuola elementare– l’unica scuola elementare del paese pedecollinare.
Quattro figli, la scuola, l’attività in parrocchia, come insegnante di catechismo, l’organizzazione del tradizionale Carnevale del paese e l’impegno con l’AVO: le energie Marta parevano essere inesauribili, come inesauribile era la sua fede che fino alla fine dipinse un sorriso sulle sue labbra, anche nel giorno in cui andai a trovarla per fare questa foto.

“Ricordati del Signore, che ti vuole bene e che non ti abbandona. Ricordati di pregarlo sempre e di andare a Messa. Devi farlo, in coscienza”
Ricordo queste sue parole, le uniche che pronunciò con espressione preoccupata guardandomi negli occhi.

Ma dopo, il sorriso.

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Valdina

1919: Valdina vide la luce in una famiglia benestante di Pola, in Istria.

I ricordi della vita in Istria sono presenze vive nella vita di Valdina: il negozio di cartoleria, il fratello rilegatore, la tata in casa e una agiatezza frutto del lavoro di una intera famiglia. L’esodo istriano colpì duramente anche la sua famiglia, e a ventotto anni fuggì in quel di Scandiano (RE ) senza nulla se non i suoi cari. L’unica certezza: il contratto del fratello presso la fabbrica di mattoni di Cà de Caroli.

La famiglia venne ulteriormente divisa, ospitati in case differenti. Ma non c’era altra soluzione, anche quando l’acqua pioveva dal tetto in una stanza piccola e umida. Sola. Valdina iniziò in quel momento la sua lunga ricerca di un lavoro, per se stessa e per sostenere la madre malata. Non fu difficile trovare amicizie, persone che le volevano bene e che compresero che quella piccola e magra “forestiera” (“Perché noi parlavamo un’altra lingua”) aveva una gran voglia di lavorare.

Come quando la signora Zuccoli “Una gran signora di Reggio che veniva in campagna a Scandiano” le trovò un lavoro presso la Saccheria Padana in via Emilia all’Angelo dove venivano confezionate le giacche per i ferrovieri. Il treno a vapore fino a Reggio, e poi: “A piedi, tutta la via Emilia a piedi fino alla Saccheria. Tutti i santi giorni”

Pasticcera, lavandaia, confezionatrice di ombrelli e infine il lavoro, l’ultimo di una lunghissima serie, nella stireria di Scandiano. “Sapevo fare di tutto, e imparavo a fare di tutto. Come quando mi è stato chiesto di riparare l’ombrello del Monsignore. L’ho ricoperto, e l’ho fatto tutto grande e bello, con una bella frangia. Lo usano ancora sai?”

Lo sguardo fiero di Valdina si posa veloce sul tavolo, dove accanto ad un prezioso lavoro a filet, non ancora terminato, ci sono i libri sull’Istria ed un antico album di fotografie di famiglia, fatto a mano dal fratello.

“Guarda, guarda che bella famiglia che eravamo..” ma non lo dice con tristezza, bensì con la consapevolezza di avere vissuto al meglio quei momenti lontani nel tempo ma vicini al cuore